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SOURCE CODE

USCITA CINEMA: 29/04/2011.


REGIA: Duncan Jones.
ATTORI: Jake Gyllenhaal, Vera Farmiga, Michelle Monaghan, Jeffrey Wright, Russell Peters.


PAESE: USA 2011. GENERE: Fantascienza, Thriller. DURATA: 93 Min.




VOTO: 5,5

Sean Fentress (Jake Gyllenhaal) era un’insegnante di storia, il Capitano Colter Stevens (Jake Gyllenhaal) un elicotterista dell’esercito, ovviamente americano, in missione per conto di Zio (Sam). Donnie Darko (Jake Gyllenhaal) era una specie di eroe depresso e romantico. Adesso, in “Source Code”, Jake Gyllenhaal è un insieme di tutti questi personaggi. Anche lo specchio pare indeciso, riflettendo un’immagine che non è la sua. Prendendo in prestito la primitiva imbranataggine tipica di certi docenti (soprattutto quando sono gettati in pasto a congegni fantascientifici poco avvezzi alla loro indole), la risolutezza di certi soldati, e un viaggio nel tempo (il quale in verità  assomiglia in questo caso più a un loop che a un wormhole), l’eroe della storia (presentato attraverso l’uso di tanti nomi per confondervi un po’) è convinto di partecipare a una simulazione, probabilmente ideata da quel manipolo di burloni dei suoi amici (?) militar-governativi. E così se ne sta bel bello sul treno delle 7.40, nell’ora di punta, e gli basterebbero ancora 8 minuti per giungere verso Chicago. Solo che quel treno esploderà, e lui dovrà scoprire, uscendo e rientrando continuamente da quei brevi giri d’orologio, chi è l’attentatore e come ha fatto a far saltare in aria quel maledetto convoglio blindato (sul quale non funzionano i freni di emergenza, deprecabili tecnici USA!).

Partendo da presupposti che tirano in ballo la fisica quantistica, il calcolo parabolico, le mappe sinaptiche e altre cazzate del genere, lo spaesamento del povero Gyllenhaal si manifesta attraverso aggressioni gratuite ai passeggeri tanto che, prendendo a cazzotti un po’ tutti (neri, bianchi, gialli), prova alla cieca a evitare l’attentato. Inizialmente un po’ duro di comprendonio, non è un bel vedere mentre recita roteando gli occhi e la testa nel tentativo di risultare apprensivo. Il bello è che deve fare tutto da solo, senza l’inquinamento di tanti effetti speciali che di solito riempiono le scene di film come questo.

Tuttavia l’artificiosa “riassegnazione del tempo sta alla rassegnazione dello spettatore” come il “continuum temporale sta al cortocircuito emozionale”, in un’equazione matematica inventata qui per qui giusto per prendere in giro la protervia dello scritto. E’ troppo facile insinuarsi nell’ostinazione scientifica di questa sceneggiatura. Il film predica il valore della vita, quando non è in grado di discernere tra il suo rispetto e lo sfruttamento; oltretutto non tenendo conto dell’importanza della salute cinematografica, sempre più irrimediabilmente compromessa nelle mani di certi trascurabili figuranti.

Come in “Moon”, il sopravvalutato esordio sempre diretto da Duncan Jones, il protagonista parla con il mondo esterno attraverso un monitor, ha desideri semplici e molto umani (il tentativo di parlare col padre), e si trova chiuso in una specie di sarcofago transitorio nel quale “opera” in semisolitudine; dalla base lunare siamo passati a una capsula-tomba. Jones, figlio di David Bowie, ha il pregio di mantenere una limpidezza registica che a tratti intriga e ci avvicina a una sgradevole sensazione claustrofobica. Prima di parlare della nascita di un Autore, a mio avviso bisognerà attendere ancora: troppi riferimenti in carta carbone, deboli e un po’ inconsistenti sono stati esibiti fin qui perché si possa individuare un’impronta originale e significativa.

Ma ritorniamo all’eroe tanto citato all’inizio, che altrimenti scadono gli 8 minuti. Jake, io ti voglio bene. Sono convinto che tu sia uno dei più bravi attori in circolazione. Non farti azzerare la memoria da queste sciocchezze, non cedere alle facili lusinghe di un finale dalla lacrima artificiale: l’esplorazione spirituale e l’approfondimento morale arrivano troppo tardi per emozionare davvero. La prossima volta scegliteli meglio i film, Donnie mio caro.


ASSASSINIO SUL TRENO

Un film di George Pollock.

Con Arthur Kennedy, Margaret Rutherford, Muriel Pavlow, James Robertson.

Titolo originale Murder She Said. Giallo, b/n durata 87 min. – Gran Bretagna 1961.

VOTO: 7


Quante cose si possono scoprire standosene comodamente seduti in treno. Mentre veniamo cullati dal movimento ipnotico della locomotiva, e richiamati da un sonno profondo, capita di sbirciare attraverso i finestrini per dare un’occhiata ai convogli che viaggiano parallelamente al nostro. Possiamo vedere uomini che si imbellettano, bambine un po’ maliziose e… una donna che viene strangolata da un paio di mani nero-guantate. Un omicidio è proprio quello che ci vorrebbe per scuotersi un po’… Ed è proprio tale accadimento che stimola l’attenzione dell’eroina per eccellenza creata dalla penna esperta di Agatha Christie, mentre viaggia su un treno partito da Paddington alle 16.50.

Miss Marple conosce bene la mentalità criminale, visto che in vita sua adora leggere romanzi gialli. E non solo: la signora ha anche una certa esperienza nella risoluzione di casi di omicidio più o meno intricati, intervenendo sempre quasi da lontano, come se la distanza agevolasse l’interpretazione del palcoscenico degli atti criminosi. In questo caso, sul treno citato, nessun cadavere pare sia giunto in stazione, perciò la polizia sospetta che si tratti di una visione di un’anziana un po’ bizzarra e fantasiosa. All’investigatrice non resta che fare affidamento sul bibliotecario, anch’egli appassionato di gialli e suo pari età.

Tratto da “Istantanea di un delitto”, romanzo di Agatha Christie scritto appena 4 anni prima, il film è vivace e piacevole. Gran parte del merito è da ascrivere alla presenza di Margaret Rutherford, la prima e probabilmente la più aderente, funzionale e completa Miss Marple che sia mai apparsa sugli schermi. La sua vitalità, nonostante il fisico un po’ appesantito, ci regala sprazzi di arguta ironia e rinnovata luminosità, offrendo in proporzione scaltre tenerezze e amabili gravità, impacci ed essenziali compostezze. Alla faccia dei nostri tempi, votati testardamente all’esaltazione assoluta della bellezza esteriore piuttosto che alle capacità recitative o viscerali, oppure appiattiti da attempate signore che vorrebbero “vestirsi in giallo” ma non si accorgono che l’abito è sdrucito e l’approccio fortuito. Anche gli altri attori interpretano bene le parti loro assegnate; il gruppo risulta armonico e brioso. In particolare James Robertson Justice, nei panni del vecchio signor Ackenthorpe, duetta con Miss Marple in modo eccellente.

Diretti da George Pollock, i fatti non sono poi così impossibili da seguire. Anzi, un pregio di questa riduzione cinematografica è la pulizia della narrazione, la quale fila liscia senza alcun intoppo ne’ forzature, regalando anche momenti di discreto turbamento grazie all’oscurità di stalle, cucine, camere da letto, corridoi e scale. Le differenze con il romanzo sono abbastanza evidenti; tuttavia, per una volta, è il film ad acquisire quella solidità e univocità che invece, Christie permettendo, mancano alle pagine del libro. Finalmente un adattamento che funziona, grazie al coraggio di eliminare le pleonastiche amiche dell’anziana investigatrice e all’aggiunta di una sottotraccia sentimentale all’apparenza di poco conto, la quale emerge decisiva quando si tirano le fila della storia, e anzi suggerisce una pista da seguire per individuare il colpevole.

Scortato dal famoso pezzo musicale di Ron Goodwin, quasi un “jingle” antico che firma tutti i momenti dove la Nostra prende l’iniziativa, ironizza o trionfa sul male, “Assassinio sul treno” favorisce il buon umore e aiuta a convivere più facilmente con il prossimo.


INTRIGO INTERNAZIONALE

Intrigo internazionaleUn film di Alfred Hitchcock.

Con James Mason, Martin Landau, Cary Grant, Eva Marie Saint, Jessie Royce Landis.


Titolo originale North by Northwest. Spionaggio, durata 136 min. – USA 1959.






VOTO: 9,5


Nel mondo della pubblicità non esistono bugie, solo parecchia esagerazione. Ecco quindi che un brillante pubblicitario, Roger Thornhill (Cary Grant), dallo sguardo così sornione e seducente, grazie a un equivoco, è oggetto di uno scambio di persona. I suoi rapitori, prendendo un granchio, credono che egli sia un certo Sig. Kaplan e lo conducono presso la maestosa abitazione di Lester Townsend, nello stato di New York. Da lì, una serie di avvenimenti frenetici e irreversibili daranno da fare al nostro Roger il quale, sballottato da una situazione incomprensibile all’altra e in costante pericolo di vita, sarà costretto a cavarsela in quale modo.

Tutte le piste che proviamo a seguire, alla ricerca di tracce e indizi che possano permetterci di comprendere qualcosa sui perché della storia, sembrano chiudercisi in faccia, come le porte dell’autobus sul volto di Hitchcock all’inizio del film. Il regista si diverte a farci smarrire in questo labirinto e, tutto quello che è in grado di concedere, sono particolari futili e ingegnosamente ironici (ci fa sapere, per esempio, che Kaplan ha la forfora ed è di qualche taglia inferiore a Thornhill).

L’ironia la fa da padrona; poche volte come in questo film Hitchcock se ne è servito per sciorinare battute a raffica. Tutta la prima parte con tanto di madre al seguito (una raggiante e salottiera Jessie Royce Landis) che riprende causticamente le situazioni nelle quali si è cacciato il figlio Roger è fresca, invitante e briosa. Una signora viziata dalle partite di bridge con le amiche, che si concede di accettare i soldi del figlio per ottenere la chiave di una camera d’albergo, è un modo non convenzionale di narrazione. Si vede che il nuovo “complice” nella sceneggiatura, Ernest Lehman, ha intenzione di riportare quell’allegria sepolta dalle vicende de “La donna che visse due volte”. Il lavoro del prosatore ridà luce ai personaggi, trionfando con i suoi dialoghi brillanti e astuti. Galeotto fu il treno

Benchè molti sostengano che “Intrigo internazionale” sia un film dalla trama troppo complessa, si può smentire facilmente questa ipotesi ribattendo che è, invece, una pellicola scritta in stato di grazia, piena di spirito, sofisticata e affascinante.

E’ una spy story prettamente hitchcockiana che a tratti somiglia, viste le parentesi rosa che prendono momentaneamente il sopravvento, ad alcuni scritti della conterranea Agatha Christie. Come lei, il regista rimane apolitico e lontano dalla vera Storia; i rischi che corre il Sig. Thornhill vengono da organizzazioni criminali instabili e provvisorie. Il cinema, d’altronde, stava per accogliere le avventure di 007.

E ci si può permettere pure di far incontrare l’ironia con la suspense, visto che i rapitori sono pronti a mostrar le pistole senza tanti cerimoniali. In tal senso, la scena dell’ascensore, con Thornhill che cerca di sfuggire a un possibile attentato alla sua vita, si risolve in una fragorosa risata che rilassa solo i presenti dell’angusto spazio in movimento ma non lo spettatore che ha tutte le informazioni per capire che c’è ben poco da stare allegri. Come dice un signore a capo dell’ufficio dei servizi segreti: “è una cosa triste ma a me viene da ridere”.

Poco dopo, Hitchcock fa incocciare la suspense con la paura vera e propria, mettendo in scena un assassinio con tanto di prova “inconfutabile” ancora  a carico di Thornhill; più che un inseguimento a opera di sconosciuti, quello perpetrato ai danni di Cary Grant sembra un  pedinamento orchestrato dal suo regista che lo fa passare per ladro, alcolizzato e assassino vendicativo. Hitchcock ci mostra che noi stessi saremmo potuti diventare, con una certa facilità e pur conducendo vite ordinarie, vittime ignare di segreti, tradimenti e perfino di trame governative. Una scena memorabile

Una fuga vissuta pericolosamente quella di Roger. Indimenticabile a tal proposito, ed entrato di diritto nella storia del cinema, il tentativo di uccisione tramite il mitra piazzato sul biplano. Una concessione all’action dai risultati strabilianti. Un campo di mais battuto dal sole cocente, una strada pressoché desolata e 7 minuti di girato quasi senza dialoghi, durante i quali accadono un sacco di cose. Suspense cristallina ancora oggi insuperata, e supportata solo dal brontolio del motore dell’aereo che tallona Thornhill e che viola il silenzio del deserto.

Ambientazioni e scenografie a tratti futuristiche accompagnano questo viaggio non previsto; a parte i “soliti” titoli di testa meravigliosamente gestiti da Saul Bass e “proiettati” geometricamente sui vetri del Palazzo delle Nazioni Unite, alcune architetture sono costruite con tecniche avanguardiste e le riprese dall’alto non fanno che esaltare la loro regolarità. Anche la villa di Philip Van Damm (James Mason) nel South Dakota risulta costruita con forme ardite; edificata in pietra e provvista di grosse vetrate con vista mare è caratterizzata da una struttura rigorosa.

E’ il nuovo che si sposa con la Storia del monte Rushmore, lì a due passi. Lode al grande talento di quello scenografo che fu Robert Boyle. Nemmeno lo stile, però, può farla franca e non sfugge ai contenuti esilaranti dello script: la presa in giro si estende fino a una galleria d’asta spassosa, dove Grant offre pochi dollari per opere d’arte considerate di pregio assoluto.

L’aeroporto NordOvest (il misterioso “North by Northwest” del titolo ha, allora, un significato?) dove la Polizia di Chicago conduce Grant secondo le indicazioni dei servizi segreti, è un luogo chiarificatore di molte figure che partecipano segretamente all’intrigo. Roger, il protagonista, guada l’America da costa a costa rendendo omaggio ad alcuni siti emblematici dello Stato, come il palazzo delle Nazioni Unite e il monte Rushmore, conducendo la sua “tranquilla” gitarella nello stile del road thriller nato già ai tempi de “Il club dei trentanove” e di “Giovane e innocente”.

Ecco che l’arbitrarietà di linguaggio, espresso da Hitchcock nei suoi giochi di parole e nei futili tentativi di dare un senso preciso alle sue intenzioni, non è altro che un poderoso e illogico spunto per mettere in scena una suggestione emotiva a danno della plausibilità. Il Maestro ha una totale padronanza dello spazio e del tempo, ordini del tutto malleabili da trasformare in funzione dell’autonomia creativa.

Il romanticismo (elemento che inizia e si compie su di un treno), si diceva, stempera le corse di questi uomini malamente affaccendati in vicende che, alla lunga, sarebbero state poco interessanti. Ma anche questo elemento non fa altro che renderci vittime di continui depistaggi: quella che crediamo possa essere una vera infatuazione oppure un soccorso messo in atto dai “buoni” è solo fumo negli occhi, un calcolato corteggiamento abbinato a freddo distacco, e il risultato è che veniamo sballottati come passeggeri su un accelerato per Chicago.

A volte i baci sono avvelenati ed è impossibile non confrontarsi con l’astuzia e la bruta malvagità della squadra di donne bionde a disposizione di “Hitch”. Il corteggiamento è giunto al termine

L’ultima arrivata si chiama Eva Marie Saint, ed è inevitabile un confronto con le altre ragazze dal capello dorato quali Grace Kelly, Tippi Hedren e Kim Novak. La Marie Saint appare indecisa, con meno carisma e fascino. Non ha molte variazioni di espressività e non bastano nemmeno le pettinature sofisticate di Sydney Guilaroff o gli abiti sfavillanti scelti dallo stesso regista a salvarci da un sottile imbarazzo.

Ciononostante resterà per sempre nella nostra memoria. Quantomeno perché protagonista di una delle scene più originali e subdole richiamanti un coito. Il treno che, sul finale, entra in galleria (e che viene introdotto da un magnifico stacco, attraverso il quale Hitchcock ribalta una situazione di estrema tensione in una di maliziosa intimità) la fa’ in barba al moralista Codice Hays. Ovvia l’allusione all’atto sessuale mostratoci qui con veemenza subliminale.

“North by Northwest” è un film che ha retto alla prova del tempo. L’incomparabile regia di Hitchcock, la solida sceneggiatura di Lehman e la splendida interpretazione di Cary Grant creano ancora una magia alla quale partecipiamo, da spettatori, sempre molto volentieri.

Le avventure di questo giovanotto che resta in giro per giorni e giorni, quasi sempre con lo stesso vestito macchiato di whisky, pesticidi, sangue, impolverato a più riprese, rinfrescato da un solo cambio di camicia, che passa da una stazione di polizia all’altra, da un mezzo di trasporto all’altro (treni, aerei, autobus), che si strappa i pantaloni e sgualcisce pure gli abiti delle signorine… sono impagabili.

Caro Grant, impertinente scavezzacollo che non sei altro, per una volta lascia perdere la guerra fredda e ricordati che la mamma ti aspetta per cena. D’altronde “Psyco” è alle porte e ben altre figure materne sono in sinistra attesa…


IL MONDO DI HORTEN

Il mondo di HortenRegia e sceneggiatura: Bent Hamer.

Attori: Bård Owe, Espen Skjønberg, Ghita Nørby, Bjørn Floberg, Henny Moan, Kai Remlov, Nils Gaup, Karl Sundby, Bjarte Hjelmeland, Lars Oyno, Morten Ruda, Peder Anders Lohne Hamer, Peter Bredal.


Paese: Germania, Francia, Norvegia 2007. Uscita Cinema: 19/06/2009.

Genere: Commedia, Drammatico.

Durata: 90 Min.



VOTO: 6


Per Horten (il valido attore Bard Owe, già visto al servizio di Lars von Trier) si avvicina l’ultimo fine settimana di lavoro come macchinista ferroviario. Lui non sogna di andare in Thailandia come i suoi colleghi, c’è qualcosa che lo lega indissolubilmente a quello che fa, non ama stare sotto i riflettori ed è isolato come le sterminate pianure norvegesi che vede dal locomotore.

Un’onorificenza lo attende, per il grado di esperienza raggiunto e per la sua devozione visti i 40 anni di servizio. Il momento della pensione è arrivato: cosa poter fare di tanto tempo a disposizione al quale, probabilmente, non era avvezzo?

Sembra che quasi tutto, nella vita, arrivi troppo tardi. Per Horten è in arrivo un vagare notturno tra aeroporti, saune, piscine, incontri casuali con personaggi bizzarri e/o saggi. Ritratti, quest’ultimi, con mano leggera e rappresentanti una collettività polimorfa e insolita. Troppe figure ed episodi slegati tra loro non contribuiscono a farci percepire univocità di messaggio, ma solo un apprezzamento estemporaneo. Il film sa essere anche spiritoso, fulminante (il “ciuff ciuuff” durante la premiazione, il quiz partecipe e appassionato tra i conducenti dei locomotori, l’imprevisto durante la cena al ristorante, i tacchi a spillo riparatori) e tenero (il “sequestro” di Horten da parte di un bambino). Vagando nella notte

Sarei stato maggiormente riconoscente verso la pellicola se avesse fatto l’operazione inversa, se avesse cioè dipinto quasi per intero la vita sempre uguale e monotona di Odd Horten (quella che si svolge di giorno). Se avesse insistito nell’incedere del treno attraverso le gallerie che si alternano sull’innevato paesaggio circostante, con andamento ed effetto ipnotico. Dalla sua macchina motrice Horten guarda, e non conosce, il mondo che lo circonda.

Così com’è, visto che si avventura in una serie di situazioni notturne da “Fuori orario” scorsesiano, è pregevole a tratti. Non sappiamo niente del passato di Horten (è sempre stato scapolo o è vedovo?). Si lascia troppo spazio all’intuizione dello spettatore e, in questo caso, non è un pregio. Alla fine, il modo col quale si avvicina (o fa ritorno?) al mondo reale, sa più di bisogno di una minestra calda piuttosto che di un vero affetto.

Rimane la bellezza mozzafiato di quel salto nel vuoto, di quella sconsideratezza capace di far capire che la vita vale la pena di essere vissuta alla luce del giorno, senza divise e con slanci sentimentali.