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IL CONCERTO

USCITA CINEMA: 05/02/2010.



REGIA e SCENEGGIATURA: Radu Mihaileanu.
ATTORI: Mélanie Laurent, François Berléand, Miou-Miou, Valerij Barinov, Lionel Abelanski, Alexeï Guskov.



MUSICHE: Armand Amar. PAESE: Francia 2009. GENERE: Commedia, Drammatico. DURATA: 120 Min.


VOTO: 8,5

Mosca, ai giorni nostri. Il Partito Comunista ha consensi sempre più bassi ed è in cerca di comparse per i suoi comizi improntati su ideologie muffite. I mafiosi russi si danno battaglia su un territorio inconsueto, e pretendono di avere successo in base al numero di invitati ai matrimoni dei loro figli, nuovi rappresentanti di un potere vizioso. Serve sempre qualcuno che si presenti al posto (o in mancanza) di un altro. E allora perché non approfittare di un invito del teatro Châtelet di Parigi per un concerto nella capitale francese ed ergersi sul podio in sostituzione di un’orchestra americana? E’ ciò a cui pensa Andrei (interpretato da un vibrante Alexei Guskov), l’ex direttore d’orchestra del Bolshoi, ridotto a fare le pulizie dopo un passato di repressione da parte dei sostenitori di Brežnev. Inizia così un reclutamento affrettato tra i vecchi musicisti ebrei, ma i tempi non sono più gli stessi. Trent’anni son passati in fretta, a qualcuno trema le mani e pensa che Parigi si sia convertita all’ebraismo, un altro si è fissato con i film a luci rosse, c’è chi lavora tra i banchi del mercato, chi fa il tassista o il guardiano: chissà se in loro è rimasta la confidenza con gli strumenti musicali e se ricordano ancora la tecnica per poterli usare?

L’incontro-scontro con i francesi, zimbelli rigorosi e precisi, sapientoni che paiono avere una scopa su per il culo e che vengono presi in giro più volte dall’inventiva di Radu Mihaileanu, è un apprezzabile momento di euforica ironia. Il regista rumeno, grazie all’abile mutamento dei toni, ci fa ammirare la nobile carenza della condizione umana attraverso uno humour graffiante e caotico, con in più uno spirito nomade e goliardico, senza che il suo lavoro rimanga privo di coerenza. Il gruppo misto che cerca di avere l’aspetto e il comportamento di musicisti professionisti è semplicemente esilarante. “Il concerto” diventa ben presto un elegiaco antidoto all’angoscia esistenziale contemporanea e, facendo leva su quelle contraddizioni culturali che altrove sarebbero state disgreganti, ispira indulgenza e un’insolita concordia.

L’ultima mezz’ora è straordinaria per coinvolgimento emotivo. Il Concerto per violino e orchestra di Tchaikovsky è un connubio perfetto di strumenti e un improvviso incontro di anime mute, comunicanti attraverso la musica. E’ la scoperta di un passato tenuto nascosto dalla protervia della Storia: tra la forza esplosiva dell’orchestra e la malinconia del violino di Anne-Marie (una lodevole Mélanie Laurent) si compie un atto d’amore supremo, un dono vitale inatteso e gioioso, la ricomposizione di un sogno e di una bacchetta spezzati, il perfezionamento di un notevole racconto allegorico.


MINE VAGANTI – Recensione

Un film di Ferzan Ozpetek.

Con Riccardo Scamarcio, Nicole Grimaudo, Alessandro Preziosi, Ennio Fantastichini, Lunetta Savino.

Commedia, durata 110 min. – Italia 2010. – 01 Distribution. Uscita: venerdì 12 marzo 2010.






VOTO: 8


La mia passione per la visione casalinga, visto che trovo il mio divano molto più rilassante di una qualsiasi sala cinematografica, mi porta in genere a lunghi tempi di attesa prima di vedere anche i films che mi “invitano” di più: e, nel caso dell’ultimo lavoro di Ozpetek, i motivi di curiosità erano tanti, perchè ho sempre giudicato il regista interessante e insoddisfacente al tempo stesso.

“Le fate ignoranti”, opera che lo ha reso in un istante regista di culto (una sorta di Almodovar turco-italico), era per me un film piacevole ma lontano dall’essere “misurato”… “La finestra di fronte” mi ha convinto molto di più, era genuinamente intenso e privo di colorazioni eccessive, e proprio mentre mi aspettavo che il suo stile registico trovasse nuovi spunti e nuovi percorsi mi attendevano visioni imbarazzanti (“Cuore sacro”), quasi irritanti (“Saturno contro”, sornione e banale), o inutili (“Un giorno perfetto”).

Per quanto riguarda “Mine vaganti”, il tempo passato attendendo l’uscita del dvd mi ha dato modo di ascoltare commenti e giudizi vari…. e, più che altro, quello che ho sentito dire era che si trattasse di una commedia “molto divertente”…. giudizio che, in realtà, sminuisce notevolmente i pregi di quest’opera che è, a mio avviso, il lavoro più interessante e maturo della carriera di Ozpetek.

Ci sono, certo, scene argutamente buffe e scambi di battute brillanti ed esilaranti, ma il tutto non può essere definito “divertente” in quanto il gusto predominante è assolutamente amaro, e il tema centrale riguarda i compromessi inevitabili tra quelle che vorrebbero essere le nostre scelte di vita e quello che la famiglia si aspetta da noi, e di come, in qualche modo, l’avere degli affetti solidi limiti sempre la nostra libertà personale.

E finalmente, dopo avere a lungo trattato il tema della “famiglia allargata”, qui Ozpetek si concentra sui meccanismi e gli equilibri di una famiglia tradizionale, una famiglia del sud italia, una famiglia di provincia chiusa e lontana dalla “modernità”, una famiglia la cui brillante posizione economica e sociale, raggiunta a fatica negli anni, ha paralizzato i legami e la possibilità di espressione personale. La tematica gay, tanto cara al regista, è solo uno spunto per evidenziare appunto la “paralisi” di una condizione familiare dove nessuno è realmente convinto di quello che è e di quello che fa, ma tutti si adattano a vivere “nella gelatina”, e imparano anche a sorridere e godere di quello che hanno. Come la nonna, personaggio intensissimo, che ha costruito il successo economico della famiglia col cognato, vero amore della sua vita – amore che ha potuto vivere solo nel sogno o nella trasgressione segreta (non si sa), e da cui comunque ha tratto emozioni e soddisfazione. Ma ecco in agguato il “generation gap”, e il figlio minore, che tra l’altro è vissuto e ha studiato in una grande città, non è affatto propenso a rinunciare alla propria gaya libertà, e nemmeno è disposto a nascondersi e mentire… invitando inconsciamente il fratello, anche lui gay, a fare coming out prima di lui… e alla fine entrambi, in modo diverso, tradiranno le aspettative dei genitori e guadagneranno la propria libertà, il maggiore dichiarando la propria vera sessualità e il minore, in modo molto consapevole, tralasciando (almeno momentaneante) di parlarne per “tradirli” comunque seguendo le proprie vere ambizioni professionali e non il futuro per lui già pianificato.

Il ritmo del film lascia appunto agli intermezzi allegri solo qualche breve momento e si concentra sull’intimismo, sull’emozione dei gesti e degli sguardi, sulla malinconia e sulle difficoltà personali, e punta molto sui personaggi di contorno (qualcuno caratterizzato brillantemente, qualcuno accennato e irrisolto).

E, complice anche la scelta delle locations, gustosamente mediterranee, e la colonna sonora azzeccatissima, Ozpetek confeziona il suo film più “italiano”, dipingendo al tempo stesso il passato e il futuro della nostra terra – e la loro difficoltà ad incontrarsi… trova una misura convincente e corretta e non eccede nel melò (anche se spesso i dialoghi indugiano in piccole “saggezze” e insegnamenti di vita), dirige magnificamente un cast di attori sensazionali e perfettamente in parte, e perde tono solo nell’intermezzo in cui inserisce un po’ inutilmente nella storia gli amici gay del figlio, virando verso caratterizzazioni stereotipate e un tono da commedia clichè… ma è solo un momento non riuscitissimo in un film dai tanti pregi.

Il finale, simbolico e sfumato, lascia intravedere luci e soluzioni, ma rimane volutamente in sospeso, dopo un’intensissima scena ad un funerale per le strade di una Lecce fascinosa e assolata…

Certo, è Ozpetek, è ancora una volta un film corale, ancora una volta il tema dell’omosessualità è presente, alcune scelte registiche sono prevedibili, ma ci sono elementi nuovi o meglio consolidati e il meccanismo narrativo è più calibrato del solito, l’amarezza è argutamente stemperata dall’ironia, la mano del regista è convinta e padrona della situazione, e l’emozione, alla fine, è piacevolmente spontanea.


SPIDER-MAN 3

Un film di Sam Raimi.

Con Tobey Maguire, Thomas Haden Church, Topher Grace, Kirsten Dunst, James Franco.

Azione, Ratings: Kids+13, durata 140 min. – USA 2007. – Sony Pictures. Uscita: martedì 1 maggio 2007.






VOTO: 8


Molti mugugni e dissensi per questo terzo capitolo della serie sul più conosciuto tra gli “aracnidi animati”. Dubbi sulla qualità, la plausibilità, le lungaggini narrative, le troppe frecce all’arco di Raimi e del fratello.

E invece… le scene d’azione si rivelano splendide e rutilanti, accompagnate da sorprendenti effetti speciali e da una regia esaltante e puntualissima nel rimarcare gli svolazzi dell’uomo in calzamaglia, con una splendida idea di cinema di intrattenimento che strizza l’occhio a contenuti filosofici. La macchina da presa di Sam Raimi striscia rasoterra come una melma nera e cattiva, insinuante come la sabbia che, dopo un incidente di fisica nucleare, entra nel Dna del povero carcerato fuggitivo e lo rende un eroe ancor più solitario, costringendolo a rifugiarsi nei sotterranei della città. Il testo principale è sostenuto dal pregio di molteplici fette romanzesche che si uniscono senza scomporsi più di tanto.

Pur essendo costato l’iperbolica cifra di 300 milioni di dollari (comprensivi delle spese di marketing), la pellicola siffatta è intimista, accende i riflettori sulle persone invece che sulle cose, insiste sui vincoli umani. Il passato che ritorna, prepotente, e che si porta dietro storie d’amore intrise di gelosia, amicizie che recano ancora ferite profonde e morti che invocano giustizia, non è roba da poco.

Spiderman ha così a che fare con una moltitudine di rogne a causa delle quali il rosso, per una volta, diventa nero, scompone i capelli in un frangetta e da’ il via al senso di vendetta e a una sensazione di rancoroso autoritarismo, supremo  e assoluto. La “versione black” amplifica l’aggressività del Nostro, la malvagità che ne scaturisce sembra incontrollabile ma riesce anche a migliorare certi aspetti del suo carattere remissivo: finalmente Peter fa colpo sulle ragazze, è risoluto sul lavoro e si fa aumentare lo stipendio. E’ sicuro e disinvolto, cambia modo di vestire e sembra pronto per andare a ballare alla “2001 Odissey”, in una divertente strizzata d’occhio all’andatura di John Travolta.

L’ironia, dispensata in grandi dosi, trasuda in ogni scena: sia mentre i cittadini sono in pericolo o nella redazione del Daily Bugle, dove il capo Jameson deve fare i conti con la pressione alta e, sotto l’occhio vigile della segretaria, prende un sacco di pillole, mentre viene gestito da improvvise scosse date alla scrivania. Da non perdere anche la sabbia che filtra nel costumino del supereroe e la porta dell’appartamento perennemente bloccata.

La gremitissima battaglia finale è, va detto francamente, spesa un po’ male… la sceneggiatura sparisce, l’azione si prolunga, e il senso filmico viene tradito dall’urgenza di mostrare qualche superlivido. Tutto questo prima di esplodere emozionalmente in una voglia di malinconia e in un trionfo di sentimentalismo, con la figura cattiva di Sandman che si scopre tragica e afflitta.


INTRIGO INTERNAZIONALE

Intrigo internazionaleUn film di Alfred Hitchcock.

Con James Mason, Martin Landau, Cary Grant, Eva Marie Saint, Jessie Royce Landis.


Titolo originale North by Northwest. Spionaggio, durata 136 min. – USA 1959.






VOTO: 9,5


Nel mondo della pubblicità non esistono bugie, solo parecchia esagerazione. Ecco quindi che un brillante pubblicitario, Roger Thornhill (Cary Grant), dallo sguardo così sornione e seducente, grazie a un equivoco, è oggetto di uno scambio di persona. I suoi rapitori, prendendo un granchio, credono che egli sia un certo Sig. Kaplan e lo conducono presso la maestosa abitazione di Lester Townsend, nello stato di New York. Da lì, una serie di avvenimenti frenetici e irreversibili daranno da fare al nostro Roger il quale, sballottato da una situazione incomprensibile all’altra e in costante pericolo di vita, sarà costretto a cavarsela in quale modo.

Tutte le piste che proviamo a seguire, alla ricerca di tracce e indizi che possano permetterci di comprendere qualcosa sui perché della storia, sembrano chiudercisi in faccia, come le porte dell’autobus sul volto di Hitchcock all’inizio del film. Il regista si diverte a farci smarrire in questo labirinto e, tutto quello che è in grado di concedere, sono particolari futili e ingegnosamente ironici (ci fa sapere, per esempio, che Kaplan ha la forfora ed è di qualche taglia inferiore a Thornhill).

L’ironia la fa da padrona; poche volte come in questo film Hitchcock se ne è servito per sciorinare battute a raffica. Tutta la prima parte con tanto di madre al seguito (una raggiante e salottiera Jessie Royce Landis) che riprende causticamente le situazioni nelle quali si è cacciato il figlio Roger è fresca, invitante e briosa. Una signora viziata dalle partite di bridge con le amiche, che si concede di accettare i soldi del figlio per ottenere la chiave di una camera d’albergo, è un modo non convenzionale di narrazione. Si vede che il nuovo “complice” nella sceneggiatura, Ernest Lehman, ha intenzione di riportare quell’allegria sepolta dalle vicende de “La donna che visse due volte”. Il lavoro del prosatore ridà luce ai personaggi, trionfando con i suoi dialoghi brillanti e astuti. Galeotto fu il treno

Benchè molti sostengano che “Intrigo internazionale” sia un film dalla trama troppo complessa, si può smentire facilmente questa ipotesi ribattendo che è, invece, una pellicola scritta in stato di grazia, piena di spirito, sofisticata e affascinante.

E’ una spy story prettamente hitchcockiana che a tratti somiglia, viste le parentesi rosa che prendono momentaneamente il sopravvento, ad alcuni scritti della conterranea Agatha Christie. Come lei, il regista rimane apolitico e lontano dalla vera Storia; i rischi che corre il Sig. Thornhill vengono da organizzazioni criminali instabili e provvisorie. Il cinema, d’altronde, stava per accogliere le avventure di 007.

E ci si può permettere pure di far incontrare l’ironia con la suspense, visto che i rapitori sono pronti a mostrar le pistole senza tanti cerimoniali. In tal senso, la scena dell’ascensore, con Thornhill che cerca di sfuggire a un possibile attentato alla sua vita, si risolve in una fragorosa risata che rilassa solo i presenti dell’angusto spazio in movimento ma non lo spettatore che ha tutte le informazioni per capire che c’è ben poco da stare allegri. Come dice un signore a capo dell’ufficio dei servizi segreti: “è una cosa triste ma a me viene da ridere”.

Poco dopo, Hitchcock fa incocciare la suspense con la paura vera e propria, mettendo in scena un assassinio con tanto di prova “inconfutabile” ancora  a carico di Thornhill; più che un inseguimento a opera di sconosciuti, quello perpetrato ai danni di Cary Grant sembra un  pedinamento orchestrato dal suo regista che lo fa passare per ladro, alcolizzato e assassino vendicativo. Hitchcock ci mostra che noi stessi saremmo potuti diventare, con una certa facilità e pur conducendo vite ordinarie, vittime ignare di segreti, tradimenti e perfino di trame governative. Una scena memorabile

Una fuga vissuta pericolosamente quella di Roger. Indimenticabile a tal proposito, ed entrato di diritto nella storia del cinema, il tentativo di uccisione tramite il mitra piazzato sul biplano. Una concessione all’action dai risultati strabilianti. Un campo di mais battuto dal sole cocente, una strada pressoché desolata e 7 minuti di girato quasi senza dialoghi, durante i quali accadono un sacco di cose. Suspense cristallina ancora oggi insuperata, e supportata solo dal brontolio del motore dell’aereo che tallona Thornhill e che viola il silenzio del deserto.

Ambientazioni e scenografie a tratti futuristiche accompagnano questo viaggio non previsto; a parte i “soliti” titoli di testa meravigliosamente gestiti da Saul Bass e “proiettati” geometricamente sui vetri del Palazzo delle Nazioni Unite, alcune architetture sono costruite con tecniche avanguardiste e le riprese dall’alto non fanno che esaltare la loro regolarità. Anche la villa di Philip Van Damm (James Mason) nel South Dakota risulta costruita con forme ardite; edificata in pietra e provvista di grosse vetrate con vista mare è caratterizzata da una struttura rigorosa.

E’ il nuovo che si sposa con la Storia del monte Rushmore, lì a due passi. Lode al grande talento di quello scenografo che fu Robert Boyle. Nemmeno lo stile, però, può farla franca e non sfugge ai contenuti esilaranti dello script: la presa in giro si estende fino a una galleria d’asta spassosa, dove Grant offre pochi dollari per opere d’arte considerate di pregio assoluto.

L’aeroporto NordOvest (il misterioso “North by Northwest” del titolo ha, allora, un significato?) dove la Polizia di Chicago conduce Grant secondo le indicazioni dei servizi segreti, è un luogo chiarificatore di molte figure che partecipano segretamente all’intrigo. Roger, il protagonista, guada l’America da costa a costa rendendo omaggio ad alcuni siti emblematici dello Stato, come il palazzo delle Nazioni Unite e il monte Rushmore, conducendo la sua “tranquilla” gitarella nello stile del road thriller nato già ai tempi de “Il club dei trentanove” e di “Giovane e innocente”.

Ecco che l’arbitrarietà di linguaggio, espresso da Hitchcock nei suoi giochi di parole e nei futili tentativi di dare un senso preciso alle sue intenzioni, non è altro che un poderoso e illogico spunto per mettere in scena una suggestione emotiva a danno della plausibilità. Il Maestro ha una totale padronanza dello spazio e del tempo, ordini del tutto malleabili da trasformare in funzione dell’autonomia creativa.

Il romanticismo (elemento che inizia e si compie su di un treno), si diceva, stempera le corse di questi uomini malamente affaccendati in vicende che, alla lunga, sarebbero state poco interessanti. Ma anche questo elemento non fa altro che renderci vittime di continui depistaggi: quella che crediamo possa essere una vera infatuazione oppure un soccorso messo in atto dai “buoni” è solo fumo negli occhi, un calcolato corteggiamento abbinato a freddo distacco, e il risultato è che veniamo sballottati come passeggeri su un accelerato per Chicago.

A volte i baci sono avvelenati ed è impossibile non confrontarsi con l’astuzia e la bruta malvagità della squadra di donne bionde a disposizione di “Hitch”. Il corteggiamento è giunto al termine

L’ultima arrivata si chiama Eva Marie Saint, ed è inevitabile un confronto con le altre ragazze dal capello dorato quali Grace Kelly, Tippi Hedren e Kim Novak. La Marie Saint appare indecisa, con meno carisma e fascino. Non ha molte variazioni di espressività e non bastano nemmeno le pettinature sofisticate di Sydney Guilaroff o gli abiti sfavillanti scelti dallo stesso regista a salvarci da un sottile imbarazzo.

Ciononostante resterà per sempre nella nostra memoria. Quantomeno perché protagonista di una delle scene più originali e subdole richiamanti un coito. Il treno che, sul finale, entra in galleria (e che viene introdotto da un magnifico stacco, attraverso il quale Hitchcock ribalta una situazione di estrema tensione in una di maliziosa intimità) la fa’ in barba al moralista Codice Hays. Ovvia l’allusione all’atto sessuale mostratoci qui con veemenza subliminale.

“North by Northwest” è un film che ha retto alla prova del tempo. L’incomparabile regia di Hitchcock, la solida sceneggiatura di Lehman e la splendida interpretazione di Cary Grant creano ancora una magia alla quale partecipiamo, da spettatori, sempre molto volentieri.

Le avventure di questo giovanotto che resta in giro per giorni e giorni, quasi sempre con lo stesso vestito macchiato di whisky, pesticidi, sangue, impolverato a più riprese, rinfrescato da un solo cambio di camicia, che passa da una stazione di polizia all’altra, da un mezzo di trasporto all’altro (treni, aerei, autobus), che si strappa i pantaloni e sgualcisce pure gli abiti delle signorine… sono impagabili.

Caro Grant, impertinente scavezzacollo che non sei altro, per una volta lascia perdere la guerra fredda e ricordati che la mamma ti aspetta per cena. D’altronde “Psyco” è alle porte e ben altre figure materne sono in sinistra attesa…


ADDIO TERRAFERMA

Addio terrafermaUn film di Otar Iosseliani.

Con Nico Tarielashvili, Lily Lavina, Philippe Bas, Amiran Amiranachvili.



Titolo originale Adieu, plancher des vaches. Commedia, durata 117 min. – Francia, Italia, Svizzera 1999.





VOTO: 9


Nicolas, ventenne appartenente ad una ricca famiglia alto-borghese della periferia parigina, trascorre le sue giornate nella capitale praticando umili mestieri e frequentando poveracci e furfantelli, mentre la madre è impegnata nei suoi affari di alto livello e il padre si dedica all’ozio, al vino, ai trenini elettrici e s’intrattiene con una cameriera e altri piccoli personaggi sfiorano, con le loro piccole storie, le vicende di questo strano nucleo.

Otar Iosseliani (classe 1934), tra i più lucidi autori del cinema contemporaneo, scrive e dirige magistralmente un’incantevole commedia umana con personaggi bizzarri, le cui storie si sfiorano, divertono, suscitano riflessioni profonde sull’utilizzo della propria esistenza.

Percorso dalla grazia di chi ne ha viste tante ma non intende affatto essere saccente, “Adieu, plancher des vaches” contrappone l’immobilità borghese (con il suo “fascino discreto”) alle esistenze irregolari di cittadini ai margini della società. Una deliziosa “ronde” attraversata da una leggerezza e da un’ironia davvero invidiabile.

Lo sguardo del regista georgiano (anche interprete del padre ubriacone) sembra essere quello di un antropologo che osserva le “regole del gioco” di una società a tratti impazzita.

Cinema filosofico, in un’epoca in cui nessuno fa più filosofia (soprattutto al cinema) e dunque cinema prezioso, che ha molte cose da dire e lo fa senza appesantire una trama arzigogolata, nè troppo pessimista, nè troppo ottimista e quindi narrativamente imprevedibile. Una scena tratta dal film del regista georgiano

Esemplare il modo in cui sono incastrate le varie storie e il punto di vista di Iosseliani rimane sempre disincantato, da cittadino apolide in un mondo in pieno caos, rendendo credibile qualsiasi situazione assurda. Nelle gioie e nei piccoli o grandi drammi che la vita ci riseva si trovano comunque il piacere di osservare il mondo da angolazioni diverse, di sperimentare esistenze alternative, il desiderio di poter decidere quando e come abbandonare il caos e ricominciare altrove, senza escludere l’eventualità di un ripensamento.

Si fa esplicito riferimento al cinema di Bunuel, Renoir e Ophuls, ma il suo è un film comunque personalissimo e coerente con l’intera filmografia di questo grande cineasta.

I giovani autori contemporanei avrebbero molto da imparare studiando i suoi film!

Gli uccelli ci guardano e hanno il privilegio di lasciare la terra(ferma) ogni qualvolta lo desiderano, con totale indifferenza e invidiabile spirito libero.

Per noi, la fuga da questo mondo è una possibilità concreta, che non coincide necessariamente con la rinuncia a vivere.