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IL CIGNO NERO

USCITA CINEMA: 18/02/2011.


REGIA e SCENEGGIATURA: Darren Aronofsky.
ATTORI: Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Winona Ryder, Barbara Hershey.


PAESE: USA 2010. GENERE: Drammatico. DURATA: 103 Min.




VOTO: 8,5


Nina (Natalie Portman), ballerina classica, è ad un punto cruciale della sua vita. Nata da una donna che “ha lasciato la carriera per colpa sua”, è cresciuta “stretta e costretta” dai lacci di quelle scarpette che la madre (Barbara Hershey) ha appeso al muro. Ed è maturata nella delicata creatura (come un candido cigno…) che è sul punto di spiccare finalmente il volo verso quella che crede sia l’unica luce del tunnel che la porterà alla libertà (come il cigno dell’opera, trasfigurato da un incantesimo): il ruolo di prima ballerina de “Il lago dei cigni”. E’ infatti il ballo l’unica forma d’espressione che Nina conosce, unica ragione di vita per quel corpo sacrificato da sforzi inumani e privazioni punitive; ed anche unica valvola di sfogo di quest’anima pura, che si riflette nell’ombra dell’attuale étoile ormai al tramonto (un inconsueto cameo di Winona Ryder), e della quale aspira prenderne il posto, in una sorta di proiezione esterna a se stessa, in bilico tra adorazione, brama e possessività; quando può si intrufola infatti nel suo camerino a rubarne qualche oggetto personale, come se i feticci di Beth potessero renderla diversa, “perfetta”.

Un Vincent Cassel sopra le righe è Thomas, il direttore del balletto, il quale, congedata freddamente l’ormai tramontata stella, affida proprio a Nina la parte della protagonista. Thomas ha forse intravisto nella candida donna quel lato oscuro che le sarebbe indispensabile per poter interpretare al meglio il doppio ruolo che le è stato affidato. Le estenuanti prove mirano quindi a “tirar fuori” il cigno nero dall’introversa anima della protagonista, ma l’incontro/scontro con l’ultima arrivata e altrettanto ambiziosa Lily (Mila Kunis), sua possibile rivale, porterà ad una inaspettata e malaugurata piega degli eventi che vedrà l’apice nel drammatico finale: Nina riuscirà ad interpretare i due Cigni, quello bianco e quello nero, e la sera della prima darà il meglio di se nell’esecuzione di un balletto che intreccia la fiaba con la realtà, il dramma con l’incubo, l’amore con il sangue…

Lo spietato dipinto del mondo del balletto che esce dal pennello in celluloide di Aronofsky non è il centro della vicenda, ma solo lo sfondo; è invece il delicato quanto oramai compromesso equilibrio emotivo e psicologico di Nina, figlia della frustrazione, alimentata a zuppa e sensi di colpa, a essere al centro del quadro. La storia non parte da un inizio; racconta la “fine” o meglio un epilogo che si intreccia, si avvita attorno a se stesso, si aggrappa all’incubo e ci trascina nell’oblio. Spesso il regista “appoggia” l’inquadratura alle spalle della protagonista, al punto che per la maggior parte le uniche riprese di Nina sono in realtà specchi riflessi; specchi a rappresentare la fragile superficie delle emozioni esasperate, che filtrano una realtà troppo pesante, da troppo tempo, e rischiano ad ogni passo di incrinarsi e andare in mille pezzi.

Le figure di contorno, come Beth, Thomas, o la madre di Nina, tutti volutamente sopra le righe e stereotipati, sono allegorie degli elementi che segnano la vita di ogni persona. Non ci sono due figure genitoriali, bensì solo quella della madre, e anche il lato oscuro, viziato, corrotto, prepotente di ogni individuo, che comunque è anche del genitore in quanto essere umano. Beth, la “principessina”, è l’aspirazione, l’essere da cui prendere esempio assoluto e da imitare, in cui immedesimarsi; è per imitazione che i bambini imparano. E Nina, ormai cresciuta ma sempre costretta nella sua camera popolata di bambole, nella sua alterata percezione della realtà, una volta vicina ad assurgere al ruolo a cui si è ispirata per tutta la vita, trasforma la sua adorazione in possessività prima e in odio poi. Thomas è forse un personaggio che assomiglia a un padre, ma in quanto uomo, maschio, è anche possibile amante, o forse confronto con l’amore e con il sesso: emozioni e sensazioni queste così estranee alla protagonista, cresciuta nell’egoismo dell’iperprotezione materna, allo stesso tempo causa e necessità. Tutti ruoli duali, bifronti, chiaro-scuri del bene e del male, che fanno da binario o da labirinto, nel costrutto complesso che il regista edifica in un insieme di sceneggiatura, personaggi, attori, riprese e scenografie stupende, che riportano anch’esse bianchi e neri a tinte forti, sottolineate da luci e ombre che accentuano il tono onirico che pervade la pellicola. Infine Lily, l’antagonista; la parte oscura, colei che può e forse vuole (?) sottrarre la tanto agognata parte alla candida Nina, vittima del suo vile tentativo di tradimento o del tarlo della paura. La ragazza è giovane, bella, spregiudicata, desiderabile; due nere ali di diavolo tatuate sulle spalle sensuali. Questo personaggio è un riferimento, nemmeno tanto celato, al mito di Lilith, prima moglie di Adamo, ripudiata e cacciata; demone femminile ritenuto portatore di disgrazia, malattia e morte. Nell’immaginario popolare ebraico è un demone notturno che porta danno ai bambini maschi e simbolo di adulterio, stregoneria e lussuria (fonte Wikipedia).

Il film, che parte da un soggetto all’apparenza poco originale, cammina sempre sul filo del rasoio, rischiando continuamente di cadere nelle didascalie delle allegorie che il regista mette in scena per rappresentare questo dramma, che è si interiore, ma nel quale finiamo per immedesimarci. Tutto il percorso che facciamo dietro la scia di Nina, è finalizzato ad un inconscio coinvolgimento che conduce nei meandri del pensiero contorto della protagonista, fino ad assorbirne convinzioni ed emozioni, in una escalation di drammatica realtà o sofferto incubo. Può sembrare difficile definire il genere di questo film, e non ce ne sarebbe bisogno. A mio avviso è doveroso, nei confronti della pellicola che così male è stata pubblicizzata, fino ad attirare curiosi in cerca di un thriller o di un horror, ribadire che non si tratta altro che di una sofferta storia, alla fine della quale scopriremo la libertà e l’amore del cigno bianco, di Nina. E versare qualche lacrima sarà solo naturale.


MINE VAGANTI – Recensione

Un film di Ferzan Ozpetek.

Con Riccardo Scamarcio, Nicole Grimaudo, Alessandro Preziosi, Ennio Fantastichini, Lunetta Savino.

Commedia, durata 110 min. – Italia 2010. – 01 Distribution. Uscita: venerdì 12 marzo 2010.






VOTO: 8


La mia passione per la visione casalinga, visto che trovo il mio divano molto più rilassante di una qualsiasi sala cinematografica, mi porta in genere a lunghi tempi di attesa prima di vedere anche i films che mi “invitano” di più: e, nel caso dell’ultimo lavoro di Ozpetek, i motivi di curiosità erano tanti, perchè ho sempre giudicato il regista interessante e insoddisfacente al tempo stesso.

“Le fate ignoranti”, opera che lo ha reso in un istante regista di culto (una sorta di Almodovar turco-italico), era per me un film piacevole ma lontano dall’essere “misurato”… “La finestra di fronte” mi ha convinto molto di più, era genuinamente intenso e privo di colorazioni eccessive, e proprio mentre mi aspettavo che il suo stile registico trovasse nuovi spunti e nuovi percorsi mi attendevano visioni imbarazzanti (“Cuore sacro”), quasi irritanti (“Saturno contro”, sornione e banale), o inutili (“Un giorno perfetto”).

Per quanto riguarda “Mine vaganti”, il tempo passato attendendo l’uscita del dvd mi ha dato modo di ascoltare commenti e giudizi vari…. e, più che altro, quello che ho sentito dire era che si trattasse di una commedia “molto divertente”…. giudizio che, in realtà, sminuisce notevolmente i pregi di quest’opera che è, a mio avviso, il lavoro più interessante e maturo della carriera di Ozpetek.

Ci sono, certo, scene argutamente buffe e scambi di battute brillanti ed esilaranti, ma il tutto non può essere definito “divertente” in quanto il gusto predominante è assolutamente amaro, e il tema centrale riguarda i compromessi inevitabili tra quelle che vorrebbero essere le nostre scelte di vita e quello che la famiglia si aspetta da noi, e di come, in qualche modo, l’avere degli affetti solidi limiti sempre la nostra libertà personale.

E finalmente, dopo avere a lungo trattato il tema della “famiglia allargata”, qui Ozpetek si concentra sui meccanismi e gli equilibri di una famiglia tradizionale, una famiglia del sud italia, una famiglia di provincia chiusa e lontana dalla “modernità”, una famiglia la cui brillante posizione economica e sociale, raggiunta a fatica negli anni, ha paralizzato i legami e la possibilità di espressione personale. La tematica gay, tanto cara al regista, è solo uno spunto per evidenziare appunto la “paralisi” di una condizione familiare dove nessuno è realmente convinto di quello che è e di quello che fa, ma tutti si adattano a vivere “nella gelatina”, e imparano anche a sorridere e godere di quello che hanno. Come la nonna, personaggio intensissimo, che ha costruito il successo economico della famiglia col cognato, vero amore della sua vita – amore che ha potuto vivere solo nel sogno o nella trasgressione segreta (non si sa), e da cui comunque ha tratto emozioni e soddisfazione. Ma ecco in agguato il “generation gap”, e il figlio minore, che tra l’altro è vissuto e ha studiato in una grande città, non è affatto propenso a rinunciare alla propria gaya libertà, e nemmeno è disposto a nascondersi e mentire… invitando inconsciamente il fratello, anche lui gay, a fare coming out prima di lui… e alla fine entrambi, in modo diverso, tradiranno le aspettative dei genitori e guadagneranno la propria libertà, il maggiore dichiarando la propria vera sessualità e il minore, in modo molto consapevole, tralasciando (almeno momentaneante) di parlarne per “tradirli” comunque seguendo le proprie vere ambizioni professionali e non il futuro per lui già pianificato.

Il ritmo del film lascia appunto agli intermezzi allegri solo qualche breve momento e si concentra sull’intimismo, sull’emozione dei gesti e degli sguardi, sulla malinconia e sulle difficoltà personali, e punta molto sui personaggi di contorno (qualcuno caratterizzato brillantemente, qualcuno accennato e irrisolto).

E, complice anche la scelta delle locations, gustosamente mediterranee, e la colonna sonora azzeccatissima, Ozpetek confeziona il suo film più “italiano”, dipingendo al tempo stesso il passato e il futuro della nostra terra – e la loro difficoltà ad incontrarsi… trova una misura convincente e corretta e non eccede nel melò (anche se spesso i dialoghi indugiano in piccole “saggezze” e insegnamenti di vita), dirige magnificamente un cast di attori sensazionali e perfettamente in parte, e perde tono solo nell’intermezzo in cui inserisce un po’ inutilmente nella storia gli amici gay del figlio, virando verso caratterizzazioni stereotipate e un tono da commedia clichè… ma è solo un momento non riuscitissimo in un film dai tanti pregi.

Il finale, simbolico e sfumato, lascia intravedere luci e soluzioni, ma rimane volutamente in sospeso, dopo un’intensissima scena ad un funerale per le strade di una Lecce fascinosa e assolata…

Certo, è Ozpetek, è ancora una volta un film corale, ancora una volta il tema dell’omosessualità è presente, alcune scelte registiche sono prevedibili, ma ci sono elementi nuovi o meglio consolidati e il meccanismo narrativo è più calibrato del solito, l’amarezza è argutamente stemperata dall’ironia, la mano del regista è convinta e padrona della situazione, e l’emozione, alla fine, è piacevolmente spontanea.